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Non esistono le amicizie perfette

  • Immagine del redattore: antonio martorano
    antonio martorano
  • 22 feb
  • Tempo di lettura: 2 min
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Proprio le più strette sono spesso relazioni ambivalenti e caotiche, con influenze positive e negative: c’entra anche il modo in cui ci siamo evoluti.

Un proverbio cinese, citato in un libro di successo degli anni Novanta dello scrittore statunitense Robert Greene, paragona gli amici alle mascelle e ai denti di animali feroci: «se non si presta la dovuta attenzione, ci si ritrova preda». Il libro in questione, Le 48 leggi del potere, che trae abbastanza creativamente una serie di insegnamenti dall’analisi di diversi eventi e personaggi storici, attirò alcune critiche per l’interpretazione delle relazioni umane che propone, giudicata cinica e immorale.

Indipendentemente dalle interpretazioni di Greene, che nel suo libro si occupa dei problemi che emergono quando relazioni di amicizia e di potere si confondono, diversi studi, riflessioni e analisi di scienze sociali degli ultimi decenni descrivono effettivamente le amicizie, soprattutto le più strette, come un tipo di rapporto umano più ambivalente, imprevedibile e disordinato di come venga comunemente rappresentato e, molto spesso, idealizzato. Il che non significa che non siano fondamentali per la salute fisica e mentale, come mostrano da tempo altri studi sugli effetti positivi delle relazioni sociali sulla longevità, sulla creatività e sulla riduzione delle malattie e dell’ipertensione arteriosa.

In generale tendiamo a pensare che le amicizie più sincere e profonde siano reciproche, simmetriche e incondizionate. Ma come ogni altra relazione umana anche queste possono in realtà essere sbilanciate, conflittuali e condizionate da ostilità latenti e tensioni. Inoltre le amicizie, incluse quelle di lunga data, tendono a evolversi: possono anche finire, quando i costi di averle superano i piaceri e i benefici. A volte finiscono senza alcun motivo, o meglio: per ragioni fuori dal nostro controllo, legate al modo in cui ci siamo evoluti come specie, anche se queste ragioni sono spesso offuscate dalla nostra normale tendenza individuale ad assumerci o ad attribuire ai comportamenti altrui le responsabilità della fine di un rapporto di amicizia.

Uno dei dati da cui emerge una certa discordanza tra la nozione idealizzata di amicizia e le amicizie reali, innanzitutto, è che soltanto la metà circa di quelle che definiamo «migliori» sono considerate allo stesso modo dall’altra persona. Gli autori e le autrici di una ricerca pubblicata nel 2016 sulla rivista Plos One reclutarono un gruppo di persone che frequentavano uno stesso corso di laurea, e chiesero a ciascuna di loro di valutare il grado di conoscenza con tutte le altre in una scala da 0 a 5.

Nel 94 per cento dei casi in cui una persona ne definiva amica un’altra si aspettava che anche l’altra persona la definisse tale. Ma contrariamente alle aspettative dei partecipanti, che consideravano reciproche quelle relazioni, in realtà quasi la metà delle amicizie erano unilaterali. C’è insomma, sulla base dei risultati della ricerca, una discreta probabilità di non essere nell’ipotetica lista dei migliori amici dei nostri migliori amici. E proprio la scarsa capacità di «percepire la direzionalità dei legami di amicizia», conclusero i ricercatori e le ricercatrici, può limitare significativamente la capacità di impegnarsi nella relazione.

 
 
 

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